giovedì 20 febbraio 2014

CHI BEN COMINCIPIT E' A META' DELL'OPERA

Quando cominciai a leggere l'annuncio di Cardano mi tremavano ancora le dita per la rabbia, ero bagnato fino all'osso dalla pioggia gelida e la voce di mia madre mi sbatteva in testa come una banda di ottoni. (...)
Giuseppe Montesano "Di questa vita menzognera"



Avrei incontrato la Maga? Tante volte mi era bastato affacciarmi, arrivando da rue de Seine, all'arco che dà sul quai de Conti, e appena la luce di cenere e di olivo sospesa sul fiume mi lasciava distinguere le forme, subito la sua figurina sottile si disegnava sul Pont des Arts, qualche volta muovendosi da una parte all'altra, qualche altra ferma contro la ringhiera di ferro, china sull'acqua. (...)
Julio Cortazar "Il gioco del mondo (Rayuela)"



Il cielo, che gravava minaccioso a pochi palmi dalle teste, sembrava una pancia d'asino rigonfia. (...)
Luis Sepulveda "Il vecchio che leggeva romanzi d'amore"

domenica 16 febbraio 2014

Nonno e la pesca di notte

A Formia l'estate non finiva mai, era fatta di giorni lunghi, di sole che inondava tutto; Santo Janni, la torre di Mola, il porto grande, il porticciolo, Vindicio, Gaeta, la montagna spaccata. Alle spalle c'era la cima gibbosa del Redentore e davanti le scogliere brune come carapaci di granchi che formavano una cortina frammentata a ridosso della costa. Dalla camera da letto degli ospiti, dopo il cortile e l'uliveto di Umberto, si vedevano i pescherecci che apparivano e sparivano tra le onde e i traghetti che facevano rotta verso Ponza, Palmarola o Ventotene, consumando il mare sulla stessa scia per tutta l'estate. 
Nonno era andato in pensione e si era messo a fare il pescatore su una piccola barca costruita da un maestro d'ascia di Gaeta. Durante la settimana, di giorno, andava sulle scogliere, per bavose, mazzoni, scorfani, e soprattutto per certi granchi verdi e lisci che la domenica mattina gli servivano per pescare i polpi. Verso l'imbrunire andava a traina per qualche occhiata o spigola; si metteva a andatura leggera, a ridosso della scogliera di fronte la torre di Mola, con il piccolo Evinrude che arrancava tra le onde. Solo raramente si spingeva fino alle spiaggette sotto al Miramare; arenava la barca, si tirava su i pantaloni, e scendeva nell'acqua bassa con una vanga smilza e robusta; fendeva colpi secchi e repentini nella sabbia, cercando cannolicchi finché non gli faceva male la schiena.
Ma la pesca vera, quella dove catturava bestie, la faceva di notte, a seconda delle lune, degli orari. Andare a pescare con nonno di notte, resistere in barca per ore senza stancarsi, senza chiudere gli occhi, era una sfida. Prima lo dovevi convincere a farti venire, e dopo veniva la prova più grossa: non mollare, non cedere al sonno, conquistare la sua stima. Ciascun nipote puntualmente tentava di persuaderlo.
- Nonno mi porti con te.
- No, che t'addormenti.
- Nonno, non m'addormento.
- Sì che t'addormenti!
Nonno si convinceva di rado e quando accadeva, quasi sempre c'era lo zampino di nonna: - Giovà, e portatelo, solo stavolta. - Lui restava zitto e non ribatteva più; un silenzio che equivaleva a dire che avevi il posto in barca.
Scendevamo sotto il ponte vicino la torre di Mola; c'erano delle scalette di pietra ripide e una banchina esile e lunga. Le barche stavano attraccate, fianco a fianco, e sembravano già sonnecchiare sul letto d'acqua placido e buio. Ci spingevamo a remi, lentamente, nel silenzio della notte, nel punto centrale tra il ponte e la torre, dove in mezzo, a pelo d'acqua, affioravano degli scogli sparuti. Nell'attesa paziente di qualche bella spigola, o di qualche cefalo, scimmiottavo nonno, la sua postura, la sicurezza, il suo non battere ciglio. Resistevo fino al momento in cui nello specchio d'acqua cominciava a riflettersi il dondolio di una mezza luna con sopra un bambino con il mento sulle mani intento a scrutare nei fondali: anguille, spigole, cefali, saraghi, occhiate, granchi, ricci, alghe. Tutto dormiva, e non c'era bisogno di alcuna pesca, perché tutto nel sonno risplendeva d'oro e tutto era a portata di mano; compariva dopo poco anche la ragazzina bionda a cui il giorno primo avevo regalato il vaso di basilico che stava sul balcone di nonna. Sembrava sbucare dalla torre o scivolare da quello spicchio di luna; tutti la guardavamo arrivare, anche i pesci, anche le alghe, anche nonno che stava sempre zitto ma in fondo non gli sfuggiva niente.
- San Giovà! Non dormire! - si incazzava e subito drizzavo la testa che si era afflosciata in un cuscino invisibile nell'aria umida.
- Stai dormendo?
- No, nonno! - e nonostante la testa scattasse di nuovo sull'attenti, tutto continuava a essere cosi bello, tutto danzava, lo spicchio di luna, i pesci, il mare, la torre, e la ragazzina che nel frattempo si era centuplicata per quanti erano i suoi capelli biondi e sottili.
- San Giovà! La lenza! - sbottava nonno, facendomi fare un walzer con la testa che oramai piegava di lato senza freno.
Quella danza continuava fino a quando la mattina aprivo gli occhi nella stanza degli ospiti, nell'ultima stanza a sinistra del corridoio. Mi svegliavo e mi avviavo verso la cucina da dove provenivano già le prime zaffate del pranzo. Inzuppavo i biscotti nel latte insieme alle parole di nonna che stava ai fornelli e mi dava le spalle: - Ti sei addormentato ieri? Ha detto nonno che non ti porta più -
Rimanevo zitto, tanto sapevo che nonna era così, e che, nonostante tutto, al momento giusto avrebbe convinto nonno, un'altra volta. Nonno sarebbe rientrato a ora di pranzo. Si sarebbe messo a capotavola, rivolto verso la veranda e i pini della scuola elementare sui quali soffiava incessante la brezza marina. Subito l'avrei cercato con lo sguardo, per sincerarmi che non fosse arrabbiato; avrebbe detto: "Giovà" e basta, che significava che tutto era a posto, che la barca stava ancora lì e che ci sarebbero state ancora molte notti. Erano i momenti in cui coglievo un sorriso dietro le sue labbra silenziose; quello di un pescatore che non andava oltre la bestemmia, di uno che sapeva che tra gettare la lenza e tirarla su, è sempre questione di un attimo. 

giovedì 13 febbraio 2014

L'attesa dell'amore

L'amore si mette su un binario lungo, viaggia tra i paesaggi, percorre il tempo come i posti, si inoltra nel giorno, sotto il sole, nella luce al tramonto sino al buio della notte, procede su tratti aspri, fluidi, rallenta quasi a fermarsi, ma resta sui binari e le traversine, ben saldo; l'attesa dell'amore è la stazione e tutto quello che sta prima della partenza, il treno che cova movimenti, il lucido delle carrozze, il fremere, i biglietti comprati di fretta anche se c'è tempo, l'ansia di salire a bordo, la paura di non partire, la gioia che resta in una bolla, fino al momento incerto del movimento, quando il treno bacia il primo centimetro di rotaia e liquida il resto, lo discioglie tra i fazzoletti e gli ultimi saluti.

domenica 9 febbraio 2014

Quando avevo la febbre

Quando mi veniva la febbre, da ragazzo, io e mamma facevamo siparietti che duravano giorni. Io moribondo nel letto, quasi dovessi dettare le ultime volontà, e lei che minimizzava. Entrava nella stanza e con decisione mi schiacciava sulla fronte la sua mano fredda procurandomi un sollievo immediato: "Hai visto mà", le dicevo con un filo di voce. "Non fare mosse!" replicava, "mamma la febbre non è uno scherzo" mormoravo esanime, e lei: "aspetta che adesso muori!". Poi però si affacciava ogni tanto, col termometro, l'aspirina, la spremuta, il brodo caldo. Mamma se ci penso minimizzava tutto, niente sembrava spaventarla. All'epoca ero convinto che il suo coraggio si limitasse alle piccole contrarietà, alle cose risolvibili come una febbre. Mi sbagliavo. Nei tre anni di malattia, chiunque le chiedesse "Adriana come stai?" lei rispondeva a denti stretti "bene, bene". Penso che il cancro l'ha inchiodata nel letto per tutto quel tempo perché lei non gli ha mai dato la soddisfazione di lamentarsi, di ammettere che stava male. La mattina che è morta, la malattia si è arresa al suo coraggio, dopo averle chiesto come stava per l'ultima volta e aver ricevuto sempre la solita risposta: "bene, bene".

Il consiglio

Mi hanno chiesto un consiglio per un certo libro e non so perché ho avuto un vuoto di memoria abissale, come se non avessi mai letto nulla. Ancora una volta ho dovuto prendere atto che la mia memoria non solo è tendenzialmente pigra ma anche dispettosa. A casa rimarcando le costole dei libri come tanti soldati in riga, ho sperato in un aiuto alla memoria; annaspando in un ginepraio di ricordi, fitti di trame e personaggi, a un certo punto mi sono imbattuto in Follia di McGrath. E' una storia piena di suspense, che si legge d'un fiato. Il libro non era quello giusto per il consiglio che dovevo dare, ma la mia memoria è strana, e mi ha aperto una finestra, me l'ha spalancata, facendomi vedere mia madre che era una lettrice insaziabile, a cui Follia era piaciuto. Istintivamente ho immaginato sulla copertina, tra le pagine, le sue dita ben fatte, con unghie simili alle mie. Le ho viste davanti a me quelle mani e mi è sembrato di toccarle ancora una volta carezzando ripetutamente il libro come si liscia il pelo di un gatto. Tutto sommato adoro questa mia memoria pigra, dispettosa ma a tratti infallibile.

Tribunali.. work in progress

Nel tribunale ci hanno mandato altri tribunali. Mi sembra un nuovo mondo. Mi sembra l'aldilà: tutte anime in pena, in cerca di collocazione. Venghino signori venghino. Al primo piano davanti le aule prima c'era un calendario che stava sempre lì e mo lo cambiano una volta al giorno. Guardia, Airola, che finalmente, scusate, ma venite voi da noi. E poi facce nuove, belle, strane, traffichine e non, che scusate pure voi, ma stavamo già messi bene così. Ci barcamenavamo nelle cancellerie alla meno peggio e adesso peggio di così, addirittura si smaterializzano davanti gli occhi, spariscono scrivanie, faldoni e cancellieri e compaiono imbianchini che ti viene il dubbio che hai sbagliato stanza, che stai più rincoglionito del solito, invece no, è un semplice spostamento, passano dal quinto piano al secondo, dal secondo al terzo, dal quarto sempre al quarto, e noi avanti, dietro, sotto, sopra, a destra e a sinistra, tanto dove ti butti ti butti è lo stesso. Alla fine rimane il piano terra e l'agognata uscita, ancora più agognata, una piccola pausa, giusto un attimo da Serafino, l'unico che non si è perso d'animo. E' rimasto lì dov'era. Ha solo allungato il bancone per qualche caffè in più, perché come diceva un anziano medico legale, un caffè e un colpo di frusta non si nega a nessuno.

La visita di mamma

Ho perso mia madre tre anni prima della sua morte. L'ho persa subito dopo l'intervento. Non si è più alzata dal letto. Era viva perché continuava ad affermare la vita dal quadrato di un materasso ma in fondo era sparita. Lontana dai posti, dalla strada, dall'aria, dal mercato, dal panificio, dall'edicola, dalla scuola, dai figli. Mi ero abituato a quella presenza statica, a quella vita ripiegata, a quell'assenza che respirava. Un pomeriggio mentre stavo allo studio ha bussato alla porta. Non si reggeva in piedi. La portava mio padre sotto braccio. Mi aspettavo tutti meno che lei, che era incatenata senza rimedio ai polsi sottili come il vetro, inchiodata al letto supina, con l'addome simile a un palloncino scavato dall'interno. Eppure si è fatta accompagnare, sorretta da papà, solo per vedermi al lavoro, per baciare tutte le stanze dove costruivo la mia vita. L'ultima volta che mamma è venuta a trovarmi. Vincendo ogni idea di fine. Contraddicendo il corso delle cose. Facendo la mamma che vuol dire che non esiste niente di più forte. La morte, prende il corpo, le ossa, i capelli e le unghie, spoglia di tutto, meno di uno spazio di stelle inafferrabile. L'unico spazio dove è incapace di andare, dove rimane sull'uscio e si inchina a una madre.