mercoledì 3 dicembre 2014

Pazza professione amala

Nel 1980 a Benevento davanti la scuola media Pascoli non c'era la strada e ci si arrivava da via Nicola da Monteforte attraverso una discesina di terra battuta; ai lati della scuola e a valle, una campagna sterminata. In prima media qualcuno portò in classe un album Panini già quasi completo e lo aprì dichiarando spavaldamente: "io tifo Juventus, avanti sfogliate e fatemi vedere per chi tifate voi. Il mio compagno di banco senza esitazioni indicò l'Avellino, "i miei cugini abitano lì" confessò avvicinandomi la bocca all'orecchio, e via via gli altri, ciascuno fece la propria dichiarazione di fede con motivazioni quasi tutte apparentemente futili. Ritardai a parlare perché durante le scuole elementari alla caserma Guidoni, anziché accapigliarci sulle squadre preferite, pensavamo a giocare a pallone nel cortile consumando le toppe sulle ginocchia dei pantaloni a zampa. Quello perciò fu il momento ufficiale dello schieramento; sfogliai con lentezza l'album sentendomi accerchiato dagli occhi dei compagni che aspettavamo silenziosi e giunto sulla pagina dell'Inter mi bloccai d'istinto, aspettai qualche secondo e poi ruppi quel silenzio fitto battendo il palmo della mano sulla pagina: "Tifo inter!", dissi con fierezza. Da quel momento cominciammo ad accapigliarci, progressivamente sempre di più, sino all'età adulta, sostituendo purtroppo ai calci al pallone davanti alla scuola le oziose chiacchiere calcistiche. Non so i motivi di quella scelta istintiva, il mio ricordo si limita a una simpatia per i colori della maglia e al capo riccioluto di Altobelli detto spillo che campeggiava a centro pagina. So però che l'istinto non agisce a caso e se c'è una squadra volubile, folle, altalenante, capace di entrare in voragini profonde come forre e l'indomani di scalare montagne, una squadra simile a me, alle mie contraddizioni, alle mie volubilità, alle mie fragilità e alle mie risorse, questa squadra è l'Inter. Quando l'Inter perde puntualmente mi chiedo "ma non potevo tifare un'altra squadra?" e puntualmente riformulo la domanda "ma avrei potuto mai tifare per una squadra diversa?". La risposta è sempre la stessa: non penso. La stessa domanda mi ripeto nei momenti difficili della professione: per come sono avrei mai potuto fare qualcosa di diverso dall'avvocato? Qualcosa di diverso da un lavoro che avvelena e rigenera a ogni secondo, che ti ripaga male soprattutto in questo periodo, che ti fa rimuginare anche di notte termini, scadenze, e questioni varie, che ti fa sentire il perenne azzeccagarbugli di un Italia che sembra aver fatto dell'avvocatura un male da estirpare a ogni costo. Anche in questo caso mi rispondo non penso. Non avrei potuto fare altro, nessun lavoro diverso da questo, altre mille volte avvocato, nel baratro e sulle cime, nello scoramento o nell'entusiasmo, l'unico lavoro che anche nel buio pesto lascia intangibile per quanto lontana, vivida per quanto angusta, una porta di luce, lo spazio per un sogno. Niente si sceglie o capita a caso anche se sembra così, perché ciò che abbiamo è ciò che più ci somiglia.
(25/10/2014)

sabato 6 settembre 2014

A TORTUGA IN PEDALO' racconto di Giovanni Rossi

Sulla spiaggia c'erano troppe alghe, seminate come capelli arruffati, e in fondo una roccia lunga e bianchissima come un osso; nessuno avrebbe pensato a un'isola da raggiungere, Tortuga, e alle sirene spiaggiate di cui erano rimasti ciuffi di capelli; per fortuna c'erano i bambini, e qualcuno di loro, non ci giurerei ma penso si trattasse del capitano in persona, raccolse il guscio di una cozza, e gridò con quanto fiato aveva in gola: - Questo doblone nero sarà per il primo che avvisterà Tortuga! - La ciurma si levò in un unico grido; due piratesse si misero la fascia sui capelli (in realtà si trattava di brandelli del jolly roger) e ci incamminammo.
Il primo ad avvicinarsi fu un incauto venditore di cocco.
- Lo tortureremo e ne faremo pastura per squali - disse il capitano.
- Meglio prenderlo vivo - fece una piratessa - il cocco è buono. - Tesoriere provveda lei - fece l'altra intimandomi di avanzare. Obbedii e subito dopo mi spostai di nuovo nelle retrovie; c'era ancora molta spiaggia da percorrere.
All'improvviso un bambino urlò come se avesse visto il fantasma del pirata Morgan: era un ammasso gelatinoso di alghe e spugne grande come un barile di grog.
- Sarà la testa di un cucciolo del Leviathan - esclamò un gracile piratino spostandosi dagli occhi il ciuffo di capelli bagnati.
Tutti sussultarono di terrore. - Niente paura - una voce si levò dalla ciurma - basta girare a largo. - Dopotutto avevamo una rotta e quando fu avvistato il pedalò, un grido disumano squarciò il cielo: - Quel brigantino è nostro - urlò il capitano, - arriveremo all'isola in un attimo.
Quando fummo sopra qualcuno già stava sullo scivolo creando disordine; e fu allora che il capitano si inferocì e minacciò di prendere il gatto a nove code e mettere alla frusta gli indisciplinati.
- Vi levo la pelle da dosso, luridi pendagli da forca!
Dritto a prua, a circa mezzo miglio, sembrava che due motoscafi puntassero proprio verso di noi.
- Sono corsari inglesi e francesi! - fecero le piratesse.
- Allora sono come noi! - rispose qualcuno.
- Non proprio, sono pirati anche loro, ma raccomandati!
- Proprio come il mio compagno di banco! – intervenne una vocina maligna dalla ciurma.
- Bando alle chiacchiere – disse il capitano - pedalare a tutta forza!
Incassai le spalle e pedalai più forte che potevo; il mio compagno a stento arrivava ai pedali e il piccolo timoniere chiedeva di continuo quanto mancava per il bagno, sebbene avesse mangiato tre gelati giusto cinque minuti prima. Alla vista del primo trabucco tutti alzarono il mento: da quella masso di corde, reti e argani pendevano alghe, pesci palla, stelle marine e diversi bucanieri lasciati al sole chissà da quanto.
- Ma i trabucchi non servivano per pescare? - chiese qualcuno.
Tutti risero per quella baggianata; era evidente che si trattava di strumenti di tortura per chi infrangeva il codice della filibusta. Poco dopo attraccammo su uno sperone di roccia. Qualcuno ebbe timore che si trattasse dell'isola delle sirene; nel dubbio il saggio capitano disse ai suoi marinai di scendere ma di tapparsi le orecchie, tutti tranne le piratesse. - Le sirene non attaccano le donne – spiegò il capitano strizzandomi l'occhio e facendomi intendere che la sapeva lunga sulla solidarietà femminile.
Sull'isola non c'era anima viva, a parte un anziano pescatore dalla pelle grinzosa che catturava gamberetti con un retino e una coppietta di fidanzati che si mettevano a vicenda una specie di unguento bianco e appiccicoso suscitando il disgusto di tutta la ciurma.
Per essere l'isola di Tortuga, la famosa isola dei balocchi fatta su misura per i pirati, era un po' scarna, convennero tutti.
- Uccidiamo il pescatore – propose il solito piccolo bellicoso.
- Anche i gamberetti sono buoni! - lo rimproverò una piratessa.
- Ma abbiamo il cocco!
- E se finisce?
- Uffa, ma che razza di pirati siamo se non uccidiamo mai nessuno? - si allontanò deluso, il piccolo sanguinario.
Le piratesse fecero spallucce, e gli altri cominciarono a dare segni di malcontento. Il sole era alto, il caldo intenso e quella lingua di roccia, bianca e desolata, destabilizzò l'umore di tutta la ciurma.
- Tutti a fare il bagno! - urlarono.
- Ma è ancora presto, avete mangiato come balenotteri! - obiettai.
Niente da fare, nuotavano già come girini impazziti.
- Il pedalò chi lo riconsegna? - urlai.
Le due piratesse da lontano puntarono il dito verso di me.
- Io? Perché io?
Nessuna risposta.
Mentre il pescatore stava chinato in una buca e armeggiava con il retino, afferrai al volo il secchiello pieno di gamberetti, feci un balzo sul pedalò e mi diressi verso il lido per la riconsegna del vascello. Dopotutto ero io il tesoriere della ciurma. Il bagnino da lontano già si sbracciava indicandomi di pedalare nella passatoia tra le due file di boe, e batteva con la mano sull'orologio. Allargai le braccia come a fargli capire: lo so, lo so, abbiamo sforato la mezz'ora, ma sono pur sempre pirati, più di tanto non si può pretendere.

Quasi a riva, con un occhio al resto dei bucanieri che giocavano e si schizzavano tra loro, vuotai il secchiello e liberai i gamberetti; il mare si dipinse all'improvviso di mille piccole chele arancioni, lo stesso identico riflesso del sole all'orizzonte.

Vieste 30.08.14 - A Chiara e Valentina

domenica 30 marzo 2014

DIARIO DI UN METEREOPATICO


14/07/2012
Raccoglievo foglie con l'illusione che mi potessero condurre ai nomi degli alberi e attraverso quei nomi al mondo intero, quasi che la natura e gli uomini fossero tutti lì; non avevo la più pallida idea di come si conservassero, forse la lacca che usava mia nonna anche se mia nonna era morta insieme alla lacca, alle sue fantastiche polpette e all'odore di cera sui pavimenti. Poi perché trattare le foglie? Conservare quello che la natura non vuole conservare ma richiede tutto per sé? Non mi interessava conservarle dopotutto, avevo l'istinto di raccoglierle e basta. Con la delicatezza di chi sta maneggiando un coleottero raro me le mettevo sulle mani, e sorridevo: erano meglio di qualsiasi insetto, perché nelle foglie c'era il nome degli alberi, delle persone, del mondo e soprattutto il loro distacco. Nessuna cosa conosce il distacco meglio di una foglia e  nessuno può pretendere nulla da essa.  Basta raccoglierle e conservarle lasciandole in una ciotola di vetro tra briciole di terra e fili secchi fino a che non si scheletriscono e si frantumano. Sicché a chi mi chiedeva cosa collezioni, soddisfatto di quello che avrebbe sciorinato lui di lì a poco, io rispondevo nella serenità di chi non compete né può barattare doppioni: colleziono foglie cadute.  


8/5/2014
Quando c'erano le rondini fuori al balcone era estate. Mia madre ci faceva il bagno e ci spazzolava a lungo i capelli umidi con gesti regolari e monotoni. Nella nostra stanza avevamo un tappeto marroncino a quadratini e il balcone che dava su un cortile lungo e rettangolare. Mentre mamma ci pettinava le rondini stridevano e piroettavano lontane, oltre i vetri, comparendo e sparendo con traiettorie repentine. A mio fratello mamma metteva un pigiama con un pantalone striminzito da dove sbucavano i ginocchi tondi e piccoli come mandarini; io avevo un pantalone corto più largo e la maglietta lunga che lo copriva quasi tutto. Mentre le rondini continuavano a saettare dietro ai vetri del balcone, a un certo momento, mamma posava la spazzola, alzava il mento, e mio fratello correva a sollevare la maniglia del balcone facendo entrare l'aria tiepida del tramonto e i garriti che senza i vetri irrompevano nella stanza netti e striduli. La balaustra della ringhiera era lunga e arrossata dal sole e punteggiata del riflesso delle ali e delle code nere. Mamma tendeva il braccio verso le chiome gonfie delle siepi appena fuori il muro del cortile e ci spiegava che le rondini sono uccelli che si cibano di insetti. -Lì - diceva mamma - ci sono lucciole e moscerini-. Mio fratello stava con gli occhi fissi alle siepi, sussultando a ogni picchiata agile, esclamando che aveva visto afferrare un insetto, o masticare freneticamente un becco. Io invece rimanevo assorta su certe rondini più alte, isolate, alcune con code lunghissime che volteggiavano eleganti e facevano acrobazie, emettendo versi più melodiosi. - Quelle hanno già mangiato - spiegava mamma vedendomi così presa. Col tempo ho scoperto che le rondini corteggiano con il canto e seducono con le acrobazie aeree. Mamma aveva ragione: l'amore va a braccetto col digiuno, senza alcun sacrificio. Quelle sere ci mettevamo a letto con l'eco delle rondini tra le lenzuola e l'ultima carezza di mamma; il cotone fresco del pigiama rimandava i raggi del sole al tramonto e i miei occhi si chiudevano con l'immagine delle rondini, quelle che stavano accanto le siepi, a predare, ma soprattutto quelle che volteggiavano più alte, lontano dalle siepi, digiune e innamorate.


2/5/2014
Sedevi tra gli altri così chiara, così diversa, mentre in basso nel fiume largo e pieno di arbusti sembravano albergare dappertutto pensieri romantici e solitari. Non era vero che eri socievole con gli altri; sedevi e basta e seguivi un istinto fatto di sorrisi e mutismi. Bastava vedere come tagliavi corto sugli argomenti posando di scatto il telefonino sul tavolo e rivolgendosi d'improvviso a un altro interlocutore: "che hai da dire?" o "oggi stai bene, sembri bello". Eri così, maga, estemporanea, come un uccello acquatico che quando è stanco o ha fame, plana nell'acqua senza pensarci due volte. Solo l'amore talvolta ti distraeva da quelle stravaganze; era come se ti assentassi; in quei momenti sembravi normale e avevi appena la forza di sorridere; erano gli stessi momenti in cui puntualmente l'acqua del fiume placava ogni mulinello e si incupiva smarrendo i pesci negli argini, come se le tue labbra d'improvviso gli avessero ordinato un coprifuoco.


25/04/2014
I litigi furiosi, quelli che sembravano anticipare il tempo, quando il cielo si chiudeva cupo e pioveva, pioveva a dirotto fino a far tracimare l'argine dei fiumi, inondare i negozi, e riempire d'acqua ogni cunetta, le cassette delle poste, comprese le falde dei cappelli, erano interni, tutti nostri e ci sospendevano in un tempo estraneo agli altri. Dopo ovviamente era come quando torna il sole; giallo diffuso e le montagne in lontananza nette nei contorni, tanto che il naso del monte più lontano era sempre preceduto da una serie di poggi ondulati pieni di macchie di pini, querce, rovi, erba. Le tue labbra nascondevano un broncio eterno, un temporale, eppure preferivo il tuo sorriso; lo preferivo come il sole, i dettagli pieni di luce, il giorno terso, e tutto ciò che nasce dopo la pioggia.  


18/04/2014
Il mare spense tutto. Ogni voglia, ogni rancore. Era immote, silenzioso. Dentro c'era la vita che doveva ancora essere. Alcuni pescherecci in lontananza su rotte uguali, così rispettosi di quelle onde assenti, così perfettamente sulla loro scia, avevano lasciato il faro e puntavano verso il promontorio, coi bastioni in lontananza, tersi, e la cresta della montagna che sembrava un naso nell'acqua.
Guardai un gabbiano, era l'unico a non sapere di me, volava senza alcuno scopo recondito, seguendo il movimento di ogni fibra interna e lasciando che il vento gli penetrasse le ali; il resto del paese, comprese le barriere degli scogli a pelo d'acqua, erano statici, annoiati da secoli; sono sempre gli annoiati a farsi gli affari degli altri; la noia può spingere a curiosità morbose, di fronte la noia i nostri segreti si sgretolano. Tutti erano un po' annoiati e tutti sapevano, tranne quel gabbiano che mi stava alto sulla testa.


16 marzo 2014
Il tramonto estivo è quello che preferisco, le nuvole sono grigie ma dietro c'è ancora del rosso, il sole piano piano viene sbocconcellato dal profilo dei monti. E' dolce, è caldo, certo finisce qualcosa, ma senza alcuna cupezza. Il nostro amore è così, un tramonto estivo, che non è chiuso né aperto, sta a mezza strada, e respira come da una fessura, da una branchia di sole. L'altro giorno ci pensavo; niente somiglia a noi come l'estate. Gli ombrelloni dei lidi sempre tesi dal vento, la spiaggia consumata dai bagnanti, le barche lontane e audaci, i ragazzi sul muretto a bere birra. Siamo nati in estate, nell'unica stagione dove il tempo rallenta e i sogni si possono associare a tutto, magari vederli nei gabbiani sarebbe scontato, ma anche i pezzi di spugna martoriati dalle onde possono andare bene, anzi meglio, sembra che il mare non riesca mai a distruggerli.


30 marzo 2014
La campagna sannita sta a metà strada tra le montagne e il mare e qualsiasi altra posto fatto di prati e colline. Ha muscoli compressi in ogni linfa, vite, asparagina, gramigna. Non ha la leziosità delle colline toscane, né la solarità degli agrumeti o delle bouganville del litorale, né il verde bruno della foresta umbra, né la brulla sacralità delle distese pugliesi, né le tinte ocra dei promontori schiacciati tra Sassari ed Alghero; attorno Benevento ci sono piante piante basse e arbusti fitti, grovigli, giunchi di fiume, ortiche, ginestre, viti che l'umido d'inverno riduce a ragni, piante tisiche di mele, cachi, ciliegi, e soprattutto rovi che hanno ricci, spine e drupe nere come i capelli delle streghe. Aspetto che esploda con il tempo caldo ogni pianta, ogni gemma, tutto ciò che ha dimorato nella nebbia per un anno. Mi circondo le ossa di tutti i fiori intimiditi dall'inverno, di tutti i pistilli, come fossero promesse chiuse tra monti e bagnate da due fiumi che coi primi soli già alitano di vapori, quasi disegnano.

20 marzo 2014
Bisognerebbe sempre cercare una casa con visuale aperta: terrazzi, cortili, balconi, finestre lucernari, qualsiasi cosa, magari anche solo un buco, un interstizio, una breccia, una fessura, l'importante è che si possa guardare fuori. E' importante capire dove nasce il sole e dove tramonta e dove staziona durante le ore del giorno. Il sole c'è sempre anche in una giornata chiusa, di nuvole, o durante un temporale quando il cielo diventa nero come il carbone. Anche quando non si vede, sapere che c'è il sole è come immaginarlo dietro un sipario, è come dire che niente è eterno, che è legittimo sperare. Una casa deve mirare al sole come la freccia al bersaglio. Addirittura una buona esposizione penetra lo stato d'animo e lo allinea al tempo: il sole netto che sembra obbligarti a lanciare sfide, quello velato che sembra diluire i secondi, quello che va e che viene come le decisioni che non vorresti prendere, quello al tramonto che ogni giorno rinnova la parabola precaria dell'esistenza. Una buona casa, per quanto bella sia dentro, resta pur sempre un'eccezione all'aperto.

domenica 23 marzo 2014

Valentina e la carezza di fine anno.


- Papà quanto sei bello, ti posso fare una carezza? 
Ovviamente una domanda del genere detta da Valentina che in sei anni di vita è stata sempre selvatica e refrattaria alla smancerie, mi è suonata grottesca. Con gli occhi fissi al tv, senza scompormi neanche di un centimetro e senza voltarmi, ho risposto di sì, in paziente attesa del promesso miracolo di tenerezza. Dopo un minuto di silenzio quasi surreale ho cominciato a sentire una specie di strana pressione tra i capelli, qualcosa di morbido e sconnesso allo stesso tempo, più simile alla mano di uno scimpanzé che non a quella di una bambina. Mi sono girato di scatto e l'ho sorpresa seduta sul divano accanto a me che mi stava carezzando i capelli con il piede, dopo essersi tolta in perfetto silenzio scarpa e calzino.
- Gesù Valentina ma che combini? Che razza di carezza mi fai?
- Papà è un esperimento - mi ha risposto con fare serio; poi è scattata in piedi ed è fuggita ridendo. Ho alzato le sopracciglia e ho continuato a vedere il televisore consolato dal fatto che finire il 31 dicembre con una carezza, anche solo di piede (ma dopotutto bisogna accontentarsi, si tratta pur sempre di Valentina), sia il miglior mondo di chiudere l'anno e di augurarsi cose affettuose per quello nuovo. (31.12.2013)

APPUNTI DI SCRITTURA...

Al porto, sulla banchina dove stavano i pescherecci, il sole del pomeriggio faceva luccicare il mare; passavo in rassegna gli argani, i nomi delle barche, le bitte, il fasciame corroso, i paglioli incrostati e l'acqua ferma sorvolata dalle cime di attracco, dove a pochi metri sul fondale si intravedevano scarti di pesce, chele, e stelle marine rovesciate. Tutto quel mare aperto oltre il faro, non mi riguardava, mi piaceva stare sui dettagli della banchina e su quell'acqua pacificata, dove tutto era vissuto, certo, e assente. (23.03.2014)

Non tutto ci appartiene; solo certe cose sono riconoscibili, dipende da noi. Quando andavamo verso la montagna spaccata, solcando l'asfalto come un fiumiciattolo, ero cosi giovane e pensavo di avere tutto; te e il mondo. Col tempo ho capito che il mondo in fondo è estraneo, ma che rovistandoci dentro c'è sempre qualcosa che splende e che più o meno è il nostro riflesso. Anche la foto che scattammo era così bella, non certo per lo sfondo della grotta buia piena dei luccichii del mare, ma per il taglio dei tuoi capelli, per gli occhiali, per tutti quei dettagli estranei agli altri che splendevano ai miei occhi. (17.03.2014)

Ieri Chiaretta aveva perso un barattolino di omogeneizzato giocattolo corredo di un bambolotto. Sono riuscito a ritrovarlo per puro caso, nel cortile del palazzo; me lo sono messo nel pugno e dopo un po', come un prestigiatore, le ho aperto la mano dinanzi agli occhi ricevendo un abbraccio lunghissimo. I bambini hanno la gioia delle cose piccole, quella che perdono gli adulti, purtroppo. (16.03.2014)

Osservavo i ragazzi fare i tuffi da una roccia molto alta. Sparivano nell'acqua in un attimo, e il mare sembrava fagocitarli tutti allo stesso modo. La differenza tra loro stava tutta sopra; sulla punta dello scoglio, a picco sul mare azzurro che si increspava di spuma. I coraggiosi si slanciavano con baldanza o partivano da dietro, correndo e precipitando in un solo tempo; i forti si muovevano lenti, quasi timidi, e si tuffavano, senza rincorsa, senza slanci. Qualche volta i coraggiosi inceppavano, frenavano sull'orlo e tornavano indietro per la rincorsa; gli altri, invece, senza una sola smorfia, spiccavano il salto ogni volta, come se l'unico destino fosse quello di sparire tra i flutti. (09.03.2014)

Detestavo quelle ventate di pessimismo; -le cose prendile così, tanto non saranno mai come vuoi - era la fase che ripetevi puntualmente quasi conficcando uno spillo. In quei momenti alzavo un po' la testa come se cercassi qualcosa e pensavo che anche in lacrime, in un vicolo cieco, o in un pozzo buio, non è vero che le cose non sono come vuoi, semplicemente non sono accolte come meriterebbero, ma sono proprio le migliori cose che ti possano capitare, le migliori in assoluto. (09.03.2014)

Era strano vedersi anche solo di sfuggita, era come strappare una sola ciliegia dall'albero; certe volte l'amore è così, duraturo e modesto. (07.03.2014)

Non capivamo perché non finisse, eppure contavamo sulla punta del naso tutti gli ingredienti della nostra distanza sicuri che non ne mancasse neanche uno. Un giorno mentre mi concentravo sulle foglie morte, tu dicesti di attendere l'estate a braccia aperte. Fu allora che capimmo; ci mancava l'estate come il pane, la stessa stagione in cui ci scrivevamo lettere che sembravano far cadere baci a fiotti anziché parole. I nostri messaggi erano l'attesa dell'amore e era estate piena, il tempo che ora cercavano i tuoi occhi ocra. Niente era nato a caso tra noi e ogni cosa sembrava rientrare al suo posto, calzare come un tassello. L'amore nato d'estate, in una distanza fatta di lettere, aspettava ancora. Sarebbe tornato là dove era nato, al caldo, tra gli alberi folti e il mare che insisteva sulla spiaggia, riprendendosi gli abbracci insieme alla risacca. (06.03.2014)

La volgarità è una caratteristica interna, molto interna. Non c'è volgarità in certe persone; su certe persone, il colore delle unghie o un abito brutto non possono nulla e al massimo sembrano stare nel posto sbagliato.(01.03.204)

L'amore si mette su un binario lungo, viaggia tra i paesaggi, percorre il tempo come i posti, si inoltra nel giorno, sotto il sole, nella luce al tramonto sino al buio della notte, procede su tratti aspri, fluidi, rallenta quasi a fermarsi, ma resta sui binari e le traversine, ben saldo; l'attesa dell'amore è la stazione e tutto quello che sta prima della partenza, il treno che cova movimenti, il lucido delle carrozze, il fremere, i biglietti comprati di fretta anche se c'è tempo, l'ansia di salire a bordo, la paura di non partire, la gioia che resta in una bolla, fino al momento incerto del movimento, quando il treno bacia il primo centimetro di rotaia e liquida il resto, lo discioglie tra i fazzoletti e gli ultimi saluti. (13.02.2014)

Con la scrittura metto a posto un po' di cose; durante il giorno mi sorprendo così diverso, contraddittorio, imbelle, stronzo, e la sera, prendo la penna, e, dopo un po' di perifrasi, mi lascio andare... riordino. (08.02.204)

Le ultime sere d'inverno mentre tutto il paese fremeva di primavera, noi abitavamo con lentezza ogni stanza della casa. Ci piaceva ancora indugiare; io ti facevo trovare il fuoco acceso perché tu ti crogiolassi sul divano e sui tappeti per ore. Ti ascoltavo leggere a alta voce con toni lenti, alle soglie del sonno. Anche i nostri corpi erano più consapevoli e si prendevano senza ansia mentre il mondo fuori pregava affinché si sciogliesse la neve. Le donne anziane stavano rintanate e sospiravano dietro i vetri, alzando gli occhi al cielo; ti vedevo spiarle divertita, mentre succhiavi spicchi d'arancia con la schiena nuda verso il camino. In quei momenti più che mai sapevamo che l'inverno andava congedato come un vecchio gentiluomo. (29.01.2014)

Fu la mattina più fredda dell'inverno, mentre ragionavi tra i cuscini e a me sembrava stessi tessendo d'estate ogni parola, che cambiasti idea su una certa strada. Quel sentiero ci aveva allettato come un pezzo di cioccolata o un sorso di vino, ma cambiasti idea, e a me sembrò come se d'improvviso avessi aperto una breccia, un buco grande quanto un dito da dove poteva intravedersi la linea sottile che divide gli estranei dall'amore. (27.01.204)

Potrei descrivere tutti i tuoi passi fino a me, sono piccoli come farfalle, e se ci penso, più imprevedibili delle loro ali quando cambiano direzione. Non tutti sanno sorprendere, perchè cuciono d'ovvio ogni gesto, e hanno lo stesso nome, lo stesso protocollo. Odio le sorprese rivelano troppo, forse agitano aria inutilmente. Le tue sono da maga invece e non so definirle come ogni cosa che ti appartiene, rompono ogni certezza di pensiero, raggelano l'acqua di una cascata, quasi la fermano a mezz'aria, e ti lasciano lì, a sperare che tutto resti sospeso, ricada, e si raggeli di nuovo. (15.01.2014)

Rido pensando che era estate, anche se non ci giurerei, dopotutto il sole di certi pomeriggi è indecifrabile. Ricordo solo che camminavamo e eravamo fermi, più fermi del solito, si vedeva che i nostri passi a dispetto di quegli degli altri volevano schiacciare i secondi sul basalto quasi a fermarli. Fu così che davanti alla fontana fummo circondati da tanto di quel tempo, che andare al museo, e indugiare su ogni busto, ogni figura, ogni spiegazione della guida, ci sembrò naturale, quasi avessimo due vite a testa da sprecare. (14.01.2014)

I ricordi mi piacevano un tempo ora non più, sono così tristi e immancabilmente cominciano ad essere popolati da assenze. Anche i tuoi sono come vele lontane, barche ridotte a puntini che non tocco, non sfioro neanche, per paura che affondino. Preferisco l'incerto di oggi, il tuo viso, i capelli, le mani e il resto che sta ancora qui, con me, attraccato come un vascello. (05.01.2014)

Mi hanno chiesto un consiglio per un certo libro e non so perché ho avuto un vuoto di memoria abissale, come se non avessi mai letto nulla. Ancora una volta ho dovuto prendere atto che la mia memoria non solo è tendenzialmente pigra ma anche dispettosa. A casa rimarcando le costole dei libri come tanti soldati in riga, ho sperato in un aiuto alla memoria; annaspando in un ginepraio di ricordi, fitti di trame e personaggi, a un certo punto mi sono imbattuto in Follia di McGrath. E' una storia piena di suspense, che si legge d'un fiato. Il libro non era quello giusto per il consiglio che dovevo dare, ma la mia memoria è strana, e mi ha aperto una finestra, me l'ha spalancata, facendomi vedere mia madre che era una lettrice insaziabile, a cui Follia era piaciuto. Istintivamente ho immaginato sulla copertina, tra le pagine, le sue dita ben fatte, con unghie simili alle mie. Le ho viste davanti a me quelle mani e mi è sembrato di toccarle ancora una volta carezzando ripetutamente il libro come si liscia il pelo di un gatto. Tutto sommato adoro questa mia memoria pigra, dispettosa ma a tratti infallibile. (19.12.2013)

Ieri sono stato con vecchi amici che praticano il culto dell'ospitalità. Non si può mangiare e bere bene semplicemente avendo un buon cibo e un buon vino. Ci vogliono le persone giuste e qualcosa che ti fa stare a tuo agio, un misto di intimità, consapevolezza che è finita la settimana, e magari un piccolo cane peloso che ti scodinzola tra le gambe. L'ospitalità è un'alchimia rara. L'unico posto dove il tempo rallenta e puoi bere il vino speciale che sa scaldare il cuore. (16.03.2013)

sabato 8 marzo 2014

Un solo gesto

E' buio qui ma è come se li vedessi, mille grappoli gialli, e il loro profumo lieve e man mano più intenso quando i fiori maturano e si tingono di arancio fino a disfarsi. L'aspetto quel ramoscello, e  certe volte, da qui sotto, non sembra che aspetti altro; non mi importa che è una festa sciocca, retorica, maschilista, che non c'è bisogno dell'otto marzo per ricordarsi, che non c'è ancora parità, rispetto, pace, o che non c'è alcun motivo per festeggiare, o che su questo prato giallo, o su ogni altro prato,  tutto diventa un banchetto vuoto, un aprirsi e chiudersi di portafogli; mi piace lo stesso e mi piace ogni anno di più, nonostante i miei occhi bui; la città è un unico profumo; la stazione, il fiume, i ragazzini vicino la fontana, coi loro ramoscelli ben messi sugli scatoli di cartone rovesciati, già ammiccano alle auto e ai passanti, e su per il viale, il ponte, il corso, le auto in seconda fila, gli uomini che vanno di fretta ciascuno coi loro ciuffi gialli, minuti, composti, ben confezionati, e qualche ramo imperioso di fiori che svetta brandito dai più giovani che vanno baldanzosi dalle fidanzate; e sulle tavole imbandite, in mezzo ai fiori, c'è il tempo avaro di un bacio, di una carezza, alle compagne, alle figlie, alle mamme, alle nonne, zie, alla vicina di casa, a qualsiasi altra, e ogni bacio e ogni carezza, si chiude in un solo momento, l'unico destinato a far fermare il tempo anche se dura quando dura un batuffolo giallo che riluce, profuma e si disfa così presto. Io sto qui, e perciò aspetto, aspetto il mio ramoscello giallo, come aspetto il mio uomo, non più quello di prima, ma quello che arriva ogni anno, l'otto marzo, nelle mani di mio padre, di mio fratello, di mio cugino, di un mio amico, o di un bambino che per caso mi passa vicino; si tratta di un gesto, uno solo, un fiore giallo posato sulla pietra, che dura il tempo di un giorno perché si disfa presto; il colore diventa arancio, poi bruno, poi come la carne livida, poi si consuma con l'aria, mentre le foglie e i rami che sono ossicini minuti, vengono lavati dalla tomba con la prima acqua. Solo il profumo resta un anno, un anno intero, mi fa compagnia, e io perciò aspetto quel gesto. Uno solo gesto all'anno, per una vita, quel gesto sconosciuto all'uomo violento di prima.

giovedì 20 febbraio 2014

CHI BEN COMINCIPIT E' A META' DELL'OPERA

Quando cominciai a leggere l'annuncio di Cardano mi tremavano ancora le dita per la rabbia, ero bagnato fino all'osso dalla pioggia gelida e la voce di mia madre mi sbatteva in testa come una banda di ottoni. (...)
Giuseppe Montesano "Di questa vita menzognera"



Avrei incontrato la Maga? Tante volte mi era bastato affacciarmi, arrivando da rue de Seine, all'arco che dà sul quai de Conti, e appena la luce di cenere e di olivo sospesa sul fiume mi lasciava distinguere le forme, subito la sua figurina sottile si disegnava sul Pont des Arts, qualche volta muovendosi da una parte all'altra, qualche altra ferma contro la ringhiera di ferro, china sull'acqua. (...)
Julio Cortazar "Il gioco del mondo (Rayuela)"



Il cielo, che gravava minaccioso a pochi palmi dalle teste, sembrava una pancia d'asino rigonfia. (...)
Luis Sepulveda "Il vecchio che leggeva romanzi d'amore"

domenica 16 febbraio 2014

Nonno e la pesca di notte

A Formia l'estate non finiva mai, era fatta di giorni lunghi, di sole che inondava tutto; Santo Janni, la torre di Mola, il porto grande, il porticciolo, Vindicio, Gaeta, la montagna spaccata. Alle spalle c'era la cima gibbosa del Redentore e davanti le scogliere brune come carapaci di granchi che formavano una cortina frammentata a ridosso della costa. Dalla camera da letto degli ospiti, dopo il cortile e l'uliveto di Umberto, si vedevano i pescherecci che apparivano e sparivano tra le onde e i traghetti che facevano rotta verso Ponza, Palmarola o Ventotene, consumando il mare sulla stessa scia per tutta l'estate. 
Nonno era andato in pensione e si era messo a fare il pescatore su una piccola barca costruita da un maestro d'ascia di Gaeta. Durante la settimana, di giorno, andava sulle scogliere, per bavose, mazzoni, scorfani, e soprattutto per certi granchi verdi e lisci che la domenica mattina gli servivano per pescare i polpi. Verso l'imbrunire andava a traina per qualche occhiata o spigola; si metteva a andatura leggera, a ridosso della scogliera di fronte la torre di Mola, con il piccolo Evinrude che arrancava tra le onde. Solo raramente si spingeva fino alle spiaggette sotto al Miramare; arenava la barca, si tirava su i pantaloni, e scendeva nell'acqua bassa con una vanga smilza e robusta; fendeva colpi secchi e repentini nella sabbia, cercando cannolicchi finché non gli faceva male la schiena.
Ma la pesca vera, quella dove catturava bestie, la faceva di notte, a seconda delle lune, degli orari. Andare a pescare con nonno di notte, resistere in barca per ore senza stancarsi, senza chiudere gli occhi, era una sfida. Prima lo dovevi convincere a farti venire, e dopo veniva la prova più grossa: non mollare, non cedere al sonno, conquistare la sua stima. Ciascun nipote puntualmente tentava di persuaderlo.
- Nonno mi porti con te.
- No, che t'addormenti.
- Nonno, non m'addormento.
- Sì che t'addormenti!
Nonno si convinceva di rado e quando accadeva, quasi sempre c'era lo zampino di nonna: - Giovà, e portatelo, solo stavolta. - Lui restava zitto e non ribatteva più; un silenzio che equivaleva a dire che avevi il posto in barca.
Scendevamo sotto il ponte vicino la torre di Mola; c'erano delle scalette di pietra ripide e una banchina esile e lunga. Le barche stavano attraccate, fianco a fianco, e sembravano già sonnecchiare sul letto d'acqua placido e buio. Ci spingevamo a remi, lentamente, nel silenzio della notte, nel punto centrale tra il ponte e la torre, dove in mezzo, a pelo d'acqua, affioravano degli scogli sparuti. Nell'attesa paziente di qualche bella spigola, o di qualche cefalo, scimmiottavo nonno, la sua postura, la sicurezza, il suo non battere ciglio. Resistevo fino al momento in cui nello specchio d'acqua cominciava a riflettersi il dondolio di una mezza luna con sopra un bambino con il mento sulle mani intento a scrutare nei fondali: anguille, spigole, cefali, saraghi, occhiate, granchi, ricci, alghe. Tutto dormiva, e non c'era bisogno di alcuna pesca, perché tutto nel sonno risplendeva d'oro e tutto era a portata di mano; compariva dopo poco anche la ragazzina bionda a cui il giorno primo avevo regalato il vaso di basilico che stava sul balcone di nonna. Sembrava sbucare dalla torre o scivolare da quello spicchio di luna; tutti la guardavamo arrivare, anche i pesci, anche le alghe, anche nonno che stava sempre zitto ma in fondo non gli sfuggiva niente.
- San Giovà! Non dormire! - si incazzava e subito drizzavo la testa che si era afflosciata in un cuscino invisibile nell'aria umida.
- Stai dormendo?
- No, nonno! - e nonostante la testa scattasse di nuovo sull'attenti, tutto continuava a essere cosi bello, tutto danzava, lo spicchio di luna, i pesci, il mare, la torre, e la ragazzina che nel frattempo si era centuplicata per quanti erano i suoi capelli biondi e sottili.
- San Giovà! La lenza! - sbottava nonno, facendomi fare un walzer con la testa che oramai piegava di lato senza freno.
Quella danza continuava fino a quando la mattina aprivo gli occhi nella stanza degli ospiti, nell'ultima stanza a sinistra del corridoio. Mi svegliavo e mi avviavo verso la cucina da dove provenivano già le prime zaffate del pranzo. Inzuppavo i biscotti nel latte insieme alle parole di nonna che stava ai fornelli e mi dava le spalle: - Ti sei addormentato ieri? Ha detto nonno che non ti porta più -
Rimanevo zitto, tanto sapevo che nonna era così, e che, nonostante tutto, al momento giusto avrebbe convinto nonno, un'altra volta. Nonno sarebbe rientrato a ora di pranzo. Si sarebbe messo a capotavola, rivolto verso la veranda e i pini della scuola elementare sui quali soffiava incessante la brezza marina. Subito l'avrei cercato con lo sguardo, per sincerarmi che non fosse arrabbiato; avrebbe detto: "Giovà" e basta, che significava che tutto era a posto, che la barca stava ancora lì e che ci sarebbero state ancora molte notti. Erano i momenti in cui coglievo un sorriso dietro le sue labbra silenziose; quello di un pescatore che non andava oltre la bestemmia, di uno che sapeva che tra gettare la lenza e tirarla su, è sempre questione di un attimo. 

giovedì 13 febbraio 2014

L'attesa dell'amore

L'amore si mette su un binario lungo, viaggia tra i paesaggi, percorre il tempo come i posti, si inoltra nel giorno, sotto il sole, nella luce al tramonto sino al buio della notte, procede su tratti aspri, fluidi, rallenta quasi a fermarsi, ma resta sui binari e le traversine, ben saldo; l'attesa dell'amore è la stazione e tutto quello che sta prima della partenza, il treno che cova movimenti, il lucido delle carrozze, il fremere, i biglietti comprati di fretta anche se c'è tempo, l'ansia di salire a bordo, la paura di non partire, la gioia che resta in una bolla, fino al momento incerto del movimento, quando il treno bacia il primo centimetro di rotaia e liquida il resto, lo discioglie tra i fazzoletti e gli ultimi saluti.

domenica 9 febbraio 2014

Quando avevo la febbre

Quando mi veniva la febbre, da ragazzo, io e mamma facevamo siparietti che duravano giorni. Io moribondo nel letto, quasi dovessi dettare le ultime volontà, e lei che minimizzava. Entrava nella stanza e con decisione mi schiacciava sulla fronte la sua mano fredda procurandomi un sollievo immediato: "Hai visto mà", le dicevo con un filo di voce. "Non fare mosse!" replicava, "mamma la febbre non è uno scherzo" mormoravo esanime, e lei: "aspetta che adesso muori!". Poi però si affacciava ogni tanto, col termometro, l'aspirina, la spremuta, il brodo caldo. Mamma se ci penso minimizzava tutto, niente sembrava spaventarla. All'epoca ero convinto che il suo coraggio si limitasse alle piccole contrarietà, alle cose risolvibili come una febbre. Mi sbagliavo. Nei tre anni di malattia, chiunque le chiedesse "Adriana come stai?" lei rispondeva a denti stretti "bene, bene". Penso che il cancro l'ha inchiodata nel letto per tutto quel tempo perché lei non gli ha mai dato la soddisfazione di lamentarsi, di ammettere che stava male. La mattina che è morta, la malattia si è arresa al suo coraggio, dopo averle chiesto come stava per l'ultima volta e aver ricevuto sempre la solita risposta: "bene, bene".

Il consiglio

Mi hanno chiesto un consiglio per un certo libro e non so perché ho avuto un vuoto di memoria abissale, come se non avessi mai letto nulla. Ancora una volta ho dovuto prendere atto che la mia memoria non solo è tendenzialmente pigra ma anche dispettosa. A casa rimarcando le costole dei libri come tanti soldati in riga, ho sperato in un aiuto alla memoria; annaspando in un ginepraio di ricordi, fitti di trame e personaggi, a un certo punto mi sono imbattuto in Follia di McGrath. E' una storia piena di suspense, che si legge d'un fiato. Il libro non era quello giusto per il consiglio che dovevo dare, ma la mia memoria è strana, e mi ha aperto una finestra, me l'ha spalancata, facendomi vedere mia madre che era una lettrice insaziabile, a cui Follia era piaciuto. Istintivamente ho immaginato sulla copertina, tra le pagine, le sue dita ben fatte, con unghie simili alle mie. Le ho viste davanti a me quelle mani e mi è sembrato di toccarle ancora una volta carezzando ripetutamente il libro come si liscia il pelo di un gatto. Tutto sommato adoro questa mia memoria pigra, dispettosa ma a tratti infallibile.

Tribunali.. work in progress

Nel tribunale ci hanno mandato altri tribunali. Mi sembra un nuovo mondo. Mi sembra l'aldilà: tutte anime in pena, in cerca di collocazione. Venghino signori venghino. Al primo piano davanti le aule prima c'era un calendario che stava sempre lì e mo lo cambiano una volta al giorno. Guardia, Airola, che finalmente, scusate, ma venite voi da noi. E poi facce nuove, belle, strane, traffichine e non, che scusate pure voi, ma stavamo già messi bene così. Ci barcamenavamo nelle cancellerie alla meno peggio e adesso peggio di così, addirittura si smaterializzano davanti gli occhi, spariscono scrivanie, faldoni e cancellieri e compaiono imbianchini che ti viene il dubbio che hai sbagliato stanza, che stai più rincoglionito del solito, invece no, è un semplice spostamento, passano dal quinto piano al secondo, dal secondo al terzo, dal quarto sempre al quarto, e noi avanti, dietro, sotto, sopra, a destra e a sinistra, tanto dove ti butti ti butti è lo stesso. Alla fine rimane il piano terra e l'agognata uscita, ancora più agognata, una piccola pausa, giusto un attimo da Serafino, l'unico che non si è perso d'animo. E' rimasto lì dov'era. Ha solo allungato il bancone per qualche caffè in più, perché come diceva un anziano medico legale, un caffè e un colpo di frusta non si nega a nessuno.

La visita di mamma

Ho perso mia madre tre anni prima della sua morte. L'ho persa subito dopo l'intervento. Non si è più alzata dal letto. Era viva perché continuava ad affermare la vita dal quadrato di un materasso ma in fondo era sparita. Lontana dai posti, dalla strada, dall'aria, dal mercato, dal panificio, dall'edicola, dalla scuola, dai figli. Mi ero abituato a quella presenza statica, a quella vita ripiegata, a quell'assenza che respirava. Un pomeriggio mentre stavo allo studio ha bussato alla porta. Non si reggeva in piedi. La portava mio padre sotto braccio. Mi aspettavo tutti meno che lei, che era incatenata senza rimedio ai polsi sottili come il vetro, inchiodata al letto supina, con l'addome simile a un palloncino scavato dall'interno. Eppure si è fatta accompagnare, sorretta da papà, solo per vedermi al lavoro, per baciare tutte le stanze dove costruivo la mia vita. L'ultima volta che mamma è venuta a trovarmi. Vincendo ogni idea di fine. Contraddicendo il corso delle cose. Facendo la mamma che vuol dire che non esiste niente di più forte. La morte, prende il corpo, le ossa, i capelli e le unghie, spoglia di tutto, meno di uno spazio di stelle inafferrabile. L'unico spazio dove è incapace di andare, dove rimane sull'uscio e si inchina a una madre.

martedì 7 gennaio 2014

Il muro della caserma Guidoni

Cammino in discesa la mattina e in salita il pomeriggio, perché c'è un percorso per la mattina e uno per il pomeriggio, gli alberelli stenti, la salita verso i campi da tennis, i pini che s'alzano sempre e puntualmente collassano come le buone intenzioni, le case che si sgretolano a ogni rogito, la caserma Guidoni che il lato a sud è la mia Berlino dell'est, dove c'era un muro tra l'Istituto Marco Polo e la scuola elementare e dentro il muro un buco fatto da una bomba che aveva più o meno la forma di un cuore, forse quello di mamma, forse il mio, forse quello dei bambini che ci giocavano a pallone coi pantaloni di velluto e le toppe; ora la caserma è un deserto e la possono fare bella quanto vogliono e ci possono mettere i poliziotti o i giudici, i pompieri, il sindaco, il duce, le mongolfiere, o mille bue Apis in fila come i beneventani che stanno tutti qua, poi tutti là, poi tutti altrove, e sono sempre loro, come me che giro in tondo, cane e coda, fino a fermarmi al centro della caserma che ora è una terriera di ghiaia e ci piscio sopra e dalle ceneri fumanti rinascerà sempre quel muro col buco dentro a forma di cuore, sempre due scuole, una di qua e una di là, e sempre io, con due ali che corrispondono da un lato al mercato e dall'altro alla villa comunale con la fontanina che adesso è un bidè di marmo mentre prima era fatta a grappoli di pietra e muschio, ora rotolate con tutto il graspo vicino al muro della caserma.