mercoledì 21 agosto 2013

Un sogno bello vale cento brutti

- Papà faccio sempre brutti sogni.
- A sette anni? Non ci credo Chiaretta. Comunque non c'è niente di strano, li faccio anch'io.
- E tu che sogni Papà?
- Sogno di scappare sempre da qualcosa. E tu?
- Non mi ricordo. Però mi ricordo un sogno bello. Che scivolavo su un arcobaleno.
- E poi?
- Cadevo su un prato di fiori.
- E poi?
- E poi c'era Valentina, e ci prendevamo per mano.
- E dove andavate?
- Papà, siamo tornate a casa, è ovvio.
- Amore, lo sai che penso...
- Che cosa?
- Che un sogno bello vale cento brutti... e...
- Che cosa?
- La prossima volta che tu e Vale state su quel prato di fiori chiamatemi.
- Papà, ma che dici? E' un sogno!  

martedì 20 agosto 2013

Appunti cagliaritani: diario di viaggio 26 giugno-03 luglio 2013 di Giovanni Rossi

PARTENZA
Quando atterro mi accogli sulla tua terra rossa e il mare verde. Abbracciandomi stretto. Levandomi il fiato già dimezzato da tanta distanza da casa.

PRIMO GIORNO
- Ciao
- Ciao
- Non sparire
- No, lo sai, dai, ...e poi ormai sono contento, dai, sai fare tutto, ti ho insegnato tutto...
- Non sparire...
- No, non sparisco, sentiamoci
- Ok, dai.. ciao
- Ciao.. mi mancherai
A parte questo, tra il ragazzo muscoloso coi baffetti alla messicana e la signora dietro al banco col camice, gli iridi azzurri e i capelli nerissimi, c'era troppo silenzio. Il silenzio che si forma quando gli occhi si baciano a lungo. Non avevo chiesto nulla, né il pane né il formaggio. Sapevo che potevo fare a meno di tutto. Lei avrebbe servito molti clienti, ma tutto sarebbe stato diverso. Avevo preferito lasciarla così, ferma dietro al banco, quasi in pasto agli altri, con quell'addio negli occhi, e non le avevo chiesto niente. Ero sgusciato via, convinto che lei non si fosse mai accorta di me, avevo raccattato una busta di taralli e ero uscito. Mi era sembrato un buon inizio. Avevo di che sperare da una terra che mi lasciava intravedere i segreti degli altri. Era come per dire, qui le cose succedono.

SECONDO GIORNO
Sarà questa sabbia a cui non avevo niente da ridire, o il promontorio, o le bocche di Bonifacio che stavano lontane come un sogno terribile, o i lidi che c'erano e potevano non esserci. Sarà che non riuscivo a restare semplicemente e allora mi dilungavo sui tetti, forse potevano essere più bassi, o piatti o senza tegole, e le palme o gli oleandri, forse più radi, sparsi meglio, o il turchese del mare, meno circoscritto, più aperto, magari più profondo, magari con echi soffocati di qualche relitto. Anche una barca a vela in lontananza, credevo potesse stare a Viareggio, a Terracina, ma non qui; sembrava troppo costipata in una prua e una poppa, sembrava stare lì e aver paura. Insomma potevo immaginare l'Assuncion dei cantieri Simeone, o una qualsiasi goletta con la chiglia scavata dalla mareggiate, addirittura un gozzo con sopra, che so, Salvatore detto Paco, che in apnea recuperava anfore e stelle marine. Niente ad eccezione di questo. Solo così potevo stare. Eppure, al mio arrivo, nonostante tutto, avevo assistito a un arrivederci e mi era sembrato un buon segno. Anzi era stato precisamente un addio travestito da arrivederci. Era stato prima di dialogare con l'acqua che è sempre così volubile. Era stato stato giusto mezz'ora prima. Era stato anche prima di conoscerti. Per caso. O meglio, era stato prima di conoscere il tuo nasino arricciarsi per chiedere lo sconto a un tizio sulla spiaggia per una veste bianca coi fiori azzurri. Io ti avevo salvata. Anche questo mi era sembrato un buon segno, ancora meglio del precedente, perché aveva avuto tutta l'aria di essere un inizio. C'era già tutto, età, bellezza, e reciproca sofferenza da guarire.

TERZO GIORNO
Al Poetto, andavo e venivo tra l'ombrellone e la battigia. Cercavo di convincermi inutilmente sull'acqua, e cioè che non fosse fredda. Quando sei arrivata non l'ho visto. Mi sono girato e ho i visto i tuoi denti bianchi farsi spazio in dei sorrisi. Stavi trattando l'acquisto di un abito leggero, a fiori. Dicevi che non era cotone, che non era come diceva lui. Crollavi il capo, sorridevi, e soprattutto arricciavi il naso. Un nasino piccolo, che a ogni sorriso si dilatava appena, pulsava come il petto di un uccello.
- Lascia stare, hai ragione non è cotone – ho detto di colpo venendoti in aiuto.
Il nero si è girato verso di me e poi verso di te. - Ok deci euro, va bene, deci euro – ha detto arrendendosi e spingendoti la mano che teneva il vestitino.
Hai pagato e mi hai guardato. Stavo già fermo nei tuoi occhi.
- Grazie - hai esclamato.
- Figurati. Comunque bello il vestito.
- Eh sì bello. Ti piace? Oddio, è una cosina così, io mi diverto a comprare d'impulso, poi puntualmente abbandono tutto nell'armadio – mi hai risposto sorridendo come a chiudere una confidenza, come se già ti appartenessi.

QUARTO GIORNO
Questa terra arida e ventosa coi fichi, le bouganville, oleandri, e fiori gialli dappertutto, sta a metà strada tra gli alberi formiani pieni d'aria e di sole e i noci, i castagni, gli ulivi, le ginestre di casa. Questa distanza incolmabile si aggiunge al desiderio di vedere un solo fico d'india maturo, uno solo, uno che si distingua dagli altri che assomigliano a olive verdi e spinose, uno da poter tagliare sul giornale, togliendo due dischi ai lati e srotolando la pelle arancia al centro. Potrei stare seduto su un muretto basso di pietra, e stare in buona compagnia. Magari vederti sbucare o addirittura vedere mia madre che arriva da dietro e mi abbraccia.

QUINTO GIORNO
Mi chiedi di chi sono le mai perfette di cui parlo. Non sono le tue. Delle tue non dico una parola. Neanche dello smalto, così indeciso (e critico verso il celeste) e così duraturo. Le tue mani sono vive come come ogni cosa. Come stamattina accanto le barche e i pescatori, sotto la Sella del Diavolo fino alla punta di Cala Caterina dall'altra parte. Anche qui è tutto vivo, compreso i pontili e i lidi mezzi vuoti, e sembra non mancare niente, neanche le tue parole che avanzano a fiotti come i pesci e arrivano all'improvviso, quasi sbucano dal nulla.

SESTO GIORNO
Oggi c'è troppo sole e troppa acqua. Ho bisogno di fresco vero, magari di Taburno, di faggi, abeti, aghi di sottobosco, palizzate di castagno, foglie secche che ammortizzano i passi, pietre a circolo per il fuoco, e cartacce, sante cartacce, compreso qualche piatto di plastica. Invece niente. C'è mare e vento. Soprattutto vento. Vento che si chiama maestrale e basta. Vento che dalla sella del diavolo attraversa il Poetto come una freccia. Questo vento stempera tutto. Il sole insistente e l'acqua troppo fredda. Corre e mi fa pensare che posso ritornare dove sono partito. Sotto le costole della dormiente del sannio. L'unico posto dove le mie ossa già corteggiano la terra.

SETTIMO GIORNO
Da Cagliari centro guardo il castello. Piega verso il basso, forse verso il mare, ma non ci metto la mano sul fuoco. Anzi, può darsi che resti lì sospeso, a guardare il panorama. Niente a che fare con Posillipo o con via Luca Giordano, o con Sant'Antonio sopra Formia che coi pini radi si strofina sul mare come un innamorato. Il Gargano è lo stesso, la foresta cade nel mare, lo buca, lo possiede. Cagliari centro resta lì, sospesa e provinciale. Tutto è fermo. Tranne i gabbiani, i fenicotteri e i fichi d'india appena fuori il Poetto. Sono segni precisi. Che non puoi fermarti al castello, al centro, ai palazzi. Anzi non devi. E' troppo poco. Bisogna pugnalare questa terra ventosa. Fino ad arrivare a Padria, dove si bardano i cavalli e si fa il latte negli ovili. Dove i pastori fanno gli spuntini mentre la notte copre le pietre dei nuraghi.

ARRIVO
Cagliari, mi fai voltare indietro come un amante ferito, come un animale che ha perso il padrone. Non ti amo ma è un buon inizio. Sento che da te ricomincerà un viaggio a ritroso verso la voce di mia madre. La prossima volta ritornerò calandomi dall'alto, passando da Pozzomaggiore, Padria, Bosa, diritto verso il Poetto, tra il mare e la terra brulla.


martedì 13 agosto 2013

LETTI... DI CARTA (Daniele Del Giudice - Lo stadio di Wimbledon)


"Anche se è stato un sonno breve, come questo di mezz'ora, dopo bisogna ricominciare tutto da capo. Sono procedure normali della continuità, e seduto in treno posso farle con delicatezza."

"Salto le righe, rileggo la stessa frase senza accorgermene. Non riesco a distinguere il ritmo delle parole dal ritmo del treno, dal ritmo del respiro, finché il corpo non resiste alla gravità a anche la bocca scende giù. Mi sono addormentato."

"Insomma lui viveva per il gusto di fare esperienze, già da giovane; non aveva mai impostato la sua vita proponendosi uno scopo ma come diceva lui stesso nel divertirsi a vivere. Divertirsi a vivere non è lo stesso che essere felici di vivere."

"Dico: -Non so. Una volta ho letto che "scrivere non gli interessava", un'altra che era "oltre il libro". Penso a tutto lo spazio che c'è tra queste due cose, a quanta fatica si fa ogni volta per spostare tutto al di qua o al di là. In mezzo potrebbe esserci uno scrittore senza libri. Lui non è l'unico, è pieno di scrittori senza libri, chissà quanti ce ne sono, anche adesso, in questo istante. Però lui ha scritto, in modo sotterraneo, parallelo, quanto bastava, per far capire che non avrebbe scritto. Per questo è lì, in quel centro. Ho letto anche che quel centro non esiste, è il vuoto. Certe volte mi sembra che non ci sia cosa più forte del vuoto, o del niente: taglia ogni questione, la rende perfetta, motivata."

"Cambiava pelle spesso, e qui anche stava la sua incapacità di realizzare; dimenticava ciò che aveva fatto, non per un voler superare ma per un lasciar cadere..."

"C'è sempre un momento quando sono a largo in cui succede; non so quanto è profondo qui, potrebbe esserci una secca o un basamento sottomarino, e magari adesso nuotando col piede potrei toccare un metallo arrugginito, un'ombra visibile e mossa, la punta di un'ala fracassata. Avvertirei sotto la pelle tenerissima dei piedi lo spessore gelido di una lamiera piena di buio, di una carlinga triste, piegata,; scivolerei sul fianco di un relitto disperso, mai localizzato, dunque ancora con tutti i resti o con quello che può restare dopo un'immersione così prolungata..."

"Lei riprende: -Vedere non è importante. E poi esiste il contrario: essere invisibili, quando si è in un particolare stato d'animo, opachi, da un'altra parte. Le è mai capitato?-"


"Sono fermo davanti al treno di alluminio, con alle spalle un sole basso, di taglio. Non sono mai stato così all'inizio, determinato e incerto. Aspettando che le porte si aprissero ho cercato nella tasca il margine del biglietto. Ho sollevato la borsa. Nell'altra mano tenevo il pullover, con la delicatezza con cui si tiene un bambino."

lunedì 12 agosto 2013

Le giostre sotto casa

Mi hanno piazzato le giostre sotto casa. Quando le bambine hanno saputo che sarebbero rimaste una settimana hanno urlato di gioia. Ho dovuto subito transigere la cosa. Ovviamente una brillante transazione per loro. Cinque giorni su sette siamo siamo andati in pellegrinaggio dai giostrai. Al posto del giro delle sette chiese, la sera abbiamo fatto quello delle sette giostre. In ordine: scivolo gonfiabile, macchine a tozza, calcio in culo, tazze volanti, trenino, pesca delle ochette. Abbiamo fatto pelo e contropelo a ogni giostra. Valentina ha dato il meglio di sé. Euforia ai massimi livelli e energia inesauribile. Solo al momento di andare a casa, cioè quando bisognava fare un pezzettino di strada a piedi, simulava improvvisi collassi fisici. Rimproveri, minacce, strattoni. Niente. L'ultimo giro di giostra puntualmente se l'è fatto sulle mie spalle.

Dr.Jekill e Mr.Hyde

Per scrivere bisogna praticare il doppio: Dr. Jekill sta in superficie, rifinisce, ricama, e se va proprio bene, firma le dediche sui libri, ma il lavoro sporco, il momento in cui la penna deve essere messa sul foglio bianco e bisogna calarsi giù, se necessario, fino a toccare gli abissi, è tutta roba di Mr. Hyde.

Non esistono i posti

Non esistono i posti, non sono mai esistiti. Non saprei riconoscere una quercia di periferia o un monumento della mia città, compreso le pietre di fiume, neanche i castagni sotto al Taburno, neanche i noccioleti dopo Pietrastornina, neanche le colline brulle di Pietrelcina, o le ginestre sulla punta più alta del sentiero che da casa di mia madre arriva a contrada Torre Alfieri. Esistono i posti grazie agli altri. Anche oggi, solo se ci sei, tutto diventa più preciso, netto, vivo come la carne, anche nel buio pesto, ad esempio, saprò dirti se sto nel letto, in un prato o per strada. Un posto solitario, se ci pensi, dipende da noi, non certo dagli alberi radi o da una casa diroccata in mezzo alla campagna.

La morte dovrebbe presentarsi onestamente

La morte dovrebbe presentarsi onestamente, senza mezzi termini, senza strisciare nelle vene, o arrivare da dietro mettendo le mani sugli occhi, la morte non dovrebbe giocare come fa il gatto col topo, né mettersi nei corpi come un camaleonte, dovrebbe stimarci di più, come facciamo noi, che lasciamo il nome sulla pietra e le consegniamo tutto, a viso aperto, senza nascondere neanche un osso o un centimetro di pelle.