All'improvviso
vengo abbagliato. Alzo gli occhi senza fare un movimento. E' tutto
giallo. Nel bagliore distinguo tre puntini. Sembrano tre lucciole
grige. Istintivamente mi alzo un po' e
cerco di assumere una posizione di difesa. I puntini avanzano
lentamente e diventano sempre più grandi e smaglianti. Quando sono davanti gli occhi, appena sopra la testa, mi accorgo che non
sono puntini ma armi. Nel preciso istante in cui i miei centri
nervosi mi dicono che devo contrarmi e scappare sento un bruciore
acuto e acquoso penetrarmi in tre punti, uno dietro il carapace, uno
sopra, e uno in mezzo gli occhi. Ho freddo, contraggo le chele e le
avvinghio attorno alle lance di metallo. Mi sento sollevare dalla
fiocina e sento un bruciore attorno al carapace che adesso si
sta distaccando, vedo altri granchi attorno a me, siamo in una
circonferenza rossa, anzi bianca, no grigia, anzi non lo so, non vedo più, è tutto
nero, è nero che sta dentro, è buio... buio.
sabato 15 giugno 2013
domenica 19 maggio 2013
Ken Parker, la mia prima volta...
Avevo
circa 10 anni. Passavo le estati a Formia dai nonni materni. Erano
stagioni lunghe, interminabili. Quando a settembre rientravo a
Benevento era trascorso talmente tanto tempo che avevo voglia di
riabbracciare persino i marciapiedi. La mattina andavamo al mare e il
pomeriggio stavamo nel quartiere San Giulio. I bambini
facevano le bancarelle di roba usata. Rovesciavano le scatole di
cartone e ci mettevano sopra fumetti e ciarpame vario. Spiccavano
quasi sempre i Tex, Zagor, Mister no, Diabolik, Topolino. C'era
qualcuno che aveva anche i Ken Parker, pochi numeri messi più in
disparte, relegati in un angolo della bancarella, già a
testimoniare una diversità, una nicchia. A quei tempi non leggevo
Ken, però mi ricordo che rimanevo incantato dinanzi alle sue
copertine. Era la prima edizione Cepim, futura Sergio Bonelli. Molto
più tardi ho saputo che su quelle copertine c'erano i superbi
acquerelli di Ivo Milazzo. Tessiture leggere, diluizioni, accenni
alabastrini, sintesi, espressioni dei volti. Leggendo, ho appreso
che i disegni di Milazzo erano ispirati dalle storie di Giancarlo
Berardi, un narratore che mostrava l'umanità con un registro di
misurata malinconia. C'è sempre una prima volta. Il tardi e il
presto sono concetti relativi. Ken Parker l'ho letto e riletto molto
dopo, ma il mio ricordo è lì, sotto il palazzo di mia nonna,
durante quelle estati lunghe, con l'adolescenza tra il mare e il
quartiere San Giulio.
sabato 6 aprile 2013
Chiara e lo spasimante
Chiaretta sette anni,
perfezionista, programmatrice, cervellotica. Sarebbe capace di ragionare anche sulle pietre dove cammina. La osservo e mi smarrisco
dentro la complessità di quel mondo che sembra un labirinto chiuso
da una porticina. Già compatisco il futuro fidanzato, poverino, che
dovrà essere un giocoliere, esperto di quella sottile arte del
riuscire ad avere senza chiedere e senza contraddire. La mia
preoccupazione è diventata addirittura concreta quando l'altro
giorno mi ha detto che era infastidita da un piccolo spasimante
occhialuto.
- Papà, pensa, mi ha
regalato un bracciale di perline...
- E tu l'hai ringraziato?
– le ho chiesto conoscendola e già temendo il peggio.
- No papà, mi sono
arrabbiata, gli ho detto: "Lo prendo, ma sappi che non lo
metterò mai!"
venerdì 5 aprile 2013
Pasquetta
Pasquetta è democratica, basta poco, come fare una piccola spesa all'ultimo secondo, anzi racimolare i resti, quell'arte insuperabile del -non si butta niente-. Quella in cui le nonne sono maestre. Come mia nonna che dagli avanzi tirava fuori pranzi e cene per altri quattro giorni. Pasquetta è l'unica festa che sta al traino, si aggancia di straforo alla liturgia. Il picnic che non si nega a nessuno. Sorge dalle sue ceneri. Anche in una giornata di pioggia, di vento. S'impone a tutto. Compare dal cilindro del prestigiatore, come sbucavano le quattro sedie dal tavolino di formica rossa che mio padre apriva come un portafoglio: a Bocca della Selva, sul Laceno, sul Camposauro, a Campitello. La magia usciva da quel tavolino a valigia e voleva dire che -basta poco-, anche se ci sono cose irraggiungibili, che stanno lontane, a luccicare come foglie al tramonto, a vantarsi mentre beviamo un buon bicchiere su una sediolina dolcemente in bilico.
domenica 31 marzo 2013
Auguri mamma
Scrivere di morte è come
liberarsi dagli spettri, scagliarli più in là, a qualche metro, per
osservarli e sentirsi pacificato. Così scrivo di questo andare da
mia madre e di pensarla. Mentre cammino la immagino a casa sua, fuori
il porticato, con le mani nella terra di quel vaso grande a sinistra
del cancello, a mettere le begonie che come ogni anno vogliono dire
estate. Quando si gira la vedo sorridere e dire: - Prendi il
rastrello, aiutami, vedi c'è quella aiuola. - La immagino così,
scaldata dal sole, a qualche metro dall'ulivo abbracciato da un
asparagina bassa e da quattro fili teneri. La immagino coi capelli
bianchi, quelli che non le ho mai visti, e d'un tratto, senza
accorgermene sono davvero da lei, tra i fiori. Non devo più
immaginare, se non vederla, bella, anche sotto quella pietra, che
accarezzo e per la prima volta ho quasi voglia di abbracciare.
sabato 30 marzo 2013
Bosco Verdito
Andiamo da Lorenzo.
Stefano ingoia le curve e io come al solito un po' parlo e un po' penso ai fatti miei. Scavalchiamo Paduli e scendiamo a valle, in un
posto solitario che si chiama Verdito dove tira un vento freddo,
forse l'ultimo dell'inverno. Arriviamo in mezzo a un caseggiato basso
con dei capannoni a sinistra, ci scivoliamo di lato, lungo una
discesa ancora sporca di fango, fino alla cappella di San
Giuseppe. A destra ci sono attaccati dei ruderi silenziosi, una
specie di braccio ingessato dal tempo, e a sinistra c'è una baita
bassa e larga tutta di pietra costruita su dei sassi che sembrano
ippopotami. Lorenzo arriva di soppiatto e ci
saluta orgoglioso del suo piccolo medioevo. Rimarchiamo ogni pietra della cappella di San
Giuseppe e poi ci entriamo. Lorenzo dice che è meglio di notte, ci
sono le luci; a me va bene così, domani è sabato, fuori c'è vento,
e il pomeriggio va a calare illanguidendo ogni sensazione. La
cappella è stata appena sistemata da un restauro, di quelli
rammemoranti, che si fanno in punta di piedi, dalle fondamenta fino
alla campana del 1600. Giriamo intorno al rudere, fino alla stalla,
ci lasciamo a destra un capanno vecchio west con quattro maiali, e ne
approfitto, faccio un filmatino alle bambine, coi musi dei maiali che
si abbaruffano per un ciuffo d'erba che infilo nella rete. Siamo
sull'orlo della valle, sulla parte più alta degli uliveti.
- L'olio buono è una
gara contro il tempo, deve andare al frantoio di corsa, poi le piante
le lascio nell'erba e quando le poto macino tutto e lascio anche quei
resti... - mentre Lorenzo parla penso a quanto sarebbe bello un tocco di campana, ora, nella valle,
ci sentirebbero a Paduli e a Pago Veiano, a San Marco dei Cavoti, a
San Giorgio La Molara, chissà addirittura in Puglia, sul Gargano.
Entriamo nella casa bassa di pietra che è stata costruita addosso a
dei macigni. La mamma di Lorenzo ci offre i biscotti alle mandorle
appena fatti e un caffè. Siamo seduti a un tavolo di legno lungo e
magro, alle nostre spalle c'è un camino con una grande bocca buia.
Nel frattempo guardiamo fuori, oltre il porticato. La grossa siepe di
lauro ha preso uno specie di fungo, una patologia che la sta facendo
arrugginire. Lorenzo e Stefano ne parlano come se fosse una vecchia
zia di famiglia, citano rimedi, terapie, addirittura usciamo e ci
giriamo attorno. Li sento dire di potature drastiche, di trattamenti,
di quanto era rigogliosa fino a qualche tempo prima. Costeggiamo il
campo di favini mentre sotto il capannone due meccanici fanno
manutenzione alla trasmissione della trebbiatrice. Lorenzo farà
ruggire quel mostro d'estate e qualche volta si metterà proprio lui
alla guida, - Oggi faccio io -, dirà all'operaio allontanandolo con
un braccio. Abbiamo ancora poco tempo, giusto quello necessario per
prendere l'olio, di due colori ma della stessa terra, degli stessi
ulivi che si aprono a valle ai lati della cappella di San Giuseppe.
Gli ulivi coi piedi nei ciuffi d'erba. Quelli che guardano il fiume
dall'alto. A questa valle bisogna essere abituati. Come Lorenzo. E
come Lorenzo bisogna avere il gusto di raccontare ogni pietra e ogni
pianta. Senza alcuna fretta e senza dover inventare nulla, stando semplicemente affacciati.
domenica 10 marzo 2013
Benevento
Ho poche occasioni per
riconciliarmi con la mia città. Devo fare qualcosa
di piccolo, in un tempo enorme, dilatato. Qualcosa di
semplice in una città frettolosa, difficile, indurita. Devo fare
leva in una breccia, un interstizio, incunearmi con fatica,
stritolarmi, e uscire dall'altra parte, partorito, talmente
estraniato che i primi momenti mi servono per ambientarmi.
Così scendo di casa e
percorro i marciapiedi cenere, giro a destra e sfioro la ringhiera
del palazzo quasi all'incrocio con via Solimene, dove le foglie dei
ciclamini già mandano note dolci. Sul viale Mellusi posso osservare i lecci e le palazzine popolari fino a
"piazza". A sinistra c'è il discobolo di
pietra che sta nascosto dietro il cancello della Mazzini. Mi giro
sempre perché mi ricordo quando ci giocavo dentro le gambe e tra i
polpacci, mentre mia madre insegnava educazione fisica
nella palestra. Poi viale dei Rettori, l'arco, la chiesa di S.Ilario, il ponte Vanvitelli, la piazza dell'Upim vecchio, la stazione, il fiume, la Madonna delle Grazie, il ponte di ferro dei treni,
due pini alti, un casolare basso, un'altro ponte verso Cellarulo, e
ancora il fiume. Ci corro assieme, io a destra e lui a sinistra,
mentre incide prati di zolle, gramigna, scarabocchi di rovi, faggi,
fino al Taburno, dove la punta esile dell'acqua esce dal collo della Dormiente. Ho poche occasioni per
riconciliarmi con la mia terra, come scrivere da una crepa e
correre nella mia città, dirle di sì, attraversandola sul dorso, sentendola pulsare sotto i piedi.
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