mercoledì 3 dicembre 2014

Pazza professione amala

Nel 1980 a Benevento davanti la scuola media Pascoli non c'era la strada e ci si arrivava da via Nicola da Monteforte attraverso una discesina di terra battuta; ai lati della scuola e a valle, una campagna sterminata. In prima media qualcuno portò in classe un album Panini già quasi completo e lo aprì dichiarando spavaldamente: "io tifo Juventus, avanti sfogliate e fatemi vedere per chi tifate voi. Il mio compagno di banco senza esitazioni indicò l'Avellino, "i miei cugini abitano lì" confessò avvicinandomi la bocca all'orecchio, e via via gli altri, ciascuno fece la propria dichiarazione di fede con motivazioni quasi tutte apparentemente futili. Ritardai a parlare perché durante le scuole elementari alla caserma Guidoni, anziché accapigliarci sulle squadre preferite, pensavamo a giocare a pallone nel cortile consumando le toppe sulle ginocchia dei pantaloni a zampa. Quello perciò fu il momento ufficiale dello schieramento; sfogliai con lentezza l'album sentendomi accerchiato dagli occhi dei compagni che aspettavamo silenziosi e giunto sulla pagina dell'Inter mi bloccai d'istinto, aspettai qualche secondo e poi ruppi quel silenzio fitto battendo il palmo della mano sulla pagina: "Tifo inter!", dissi con fierezza. Da quel momento cominciammo ad accapigliarci, progressivamente sempre di più, sino all'età adulta, sostituendo purtroppo ai calci al pallone davanti alla scuola le oziose chiacchiere calcistiche. Non so i motivi di quella scelta istintiva, il mio ricordo si limita a una simpatia per i colori della maglia e al capo riccioluto di Altobelli detto spillo che campeggiava a centro pagina. So però che l'istinto non agisce a caso e se c'è una squadra volubile, folle, altalenante, capace di entrare in voragini profonde come forre e l'indomani di scalare montagne, una squadra simile a me, alle mie contraddizioni, alle mie volubilità, alle mie fragilità e alle mie risorse, questa squadra è l'Inter. Quando l'Inter perde puntualmente mi chiedo "ma non potevo tifare un'altra squadra?" e puntualmente riformulo la domanda "ma avrei potuto mai tifare per una squadra diversa?". La risposta è sempre la stessa: non penso. La stessa domanda mi ripeto nei momenti difficili della professione: per come sono avrei mai potuto fare qualcosa di diverso dall'avvocato? Qualcosa di diverso da un lavoro che avvelena e rigenera a ogni secondo, che ti ripaga male soprattutto in questo periodo, che ti fa rimuginare anche di notte termini, scadenze, e questioni varie, che ti fa sentire il perenne azzeccagarbugli di un Italia che sembra aver fatto dell'avvocatura un male da estirpare a ogni costo. Anche in questo caso mi rispondo non penso. Non avrei potuto fare altro, nessun lavoro diverso da questo, altre mille volte avvocato, nel baratro e sulle cime, nello scoramento o nell'entusiasmo, l'unico lavoro che anche nel buio pesto lascia intangibile per quanto lontana, vivida per quanto angusta, una porta di luce, lo spazio per un sogno. Niente si sceglie o capita a caso anche se sembra così, perché ciò che abbiamo è ciò che più ci somiglia.
(25/10/2014)

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