Ho poche occasioni per
riconciliarmi con la mia città. Devo fare qualcosa
di piccolo, in un tempo enorme, dilatato. Qualcosa di
semplice in una città frettolosa, difficile, indurita. Devo fare
leva in una breccia, un interstizio, incunearmi con fatica,
stritolarmi, e uscire dall'altra parte, partorito, talmente
estraniato che i primi momenti mi servono per ambientarmi.
Così scendo di casa e
percorro i marciapiedi cenere, giro a destra e sfioro la ringhiera
del palazzo quasi all'incrocio con via Solimene, dove le foglie dei
ciclamini già mandano note dolci. Sul viale Mellusi posso osservare i lecci e le palazzine popolari fino a
"piazza". A sinistra c'è il discobolo di
pietra che sta nascosto dietro il cancello della Mazzini. Mi giro
sempre perché mi ricordo quando ci giocavo dentro le gambe e tra i
polpacci, mentre mia madre insegnava educazione fisica
nella palestra. Poi viale dei Rettori, l'arco, la chiesa di S.Ilario, il ponte Vanvitelli, la piazza dell'Upim vecchio, la stazione, il fiume, la Madonna delle Grazie, il ponte di ferro dei treni,
due pini alti, un casolare basso, un'altro ponte verso Cellarulo, e
ancora il fiume. Ci corro assieme, io a destra e lui a sinistra,
mentre incide prati di zolle, gramigna, scarabocchi di rovi, faggi,
fino al Taburno, dove la punta esile dell'acqua esce dal collo della Dormiente. Ho poche occasioni per
riconciliarmi con la mia terra, come scrivere da una crepa e
correre nella mia città, dirle di sì, attraversandola sul dorso, sentendola pulsare sotto i piedi.
Nessun commento:
Posta un commento