martedì 20 agosto 2013

Appunti cagliaritani: diario di viaggio 26 giugno-03 luglio 2013 di Giovanni Rossi

PARTENZA
Quando atterro mi accogli sulla tua terra rossa e il mare verde. Abbracciandomi stretto. Levandomi il fiato già dimezzato da tanta distanza da casa.

PRIMO GIORNO
- Ciao
- Ciao
- Non sparire
- No, lo sai, dai, ...e poi ormai sono contento, dai, sai fare tutto, ti ho insegnato tutto...
- Non sparire...
- No, non sparisco, sentiamoci
- Ok, dai.. ciao
- Ciao.. mi mancherai
A parte questo, tra il ragazzo muscoloso coi baffetti alla messicana e la signora dietro al banco col camice, gli iridi azzurri e i capelli nerissimi, c'era troppo silenzio. Il silenzio che si forma quando gli occhi si baciano a lungo. Non avevo chiesto nulla, né il pane né il formaggio. Sapevo che potevo fare a meno di tutto. Lei avrebbe servito molti clienti, ma tutto sarebbe stato diverso. Avevo preferito lasciarla così, ferma dietro al banco, quasi in pasto agli altri, con quell'addio negli occhi, e non le avevo chiesto niente. Ero sgusciato via, convinto che lei non si fosse mai accorta di me, avevo raccattato una busta di taralli e ero uscito. Mi era sembrato un buon inizio. Avevo di che sperare da una terra che mi lasciava intravedere i segreti degli altri. Era come per dire, qui le cose succedono.

SECONDO GIORNO
Sarà questa sabbia a cui non avevo niente da ridire, o il promontorio, o le bocche di Bonifacio che stavano lontane come un sogno terribile, o i lidi che c'erano e potevano non esserci. Sarà che non riuscivo a restare semplicemente e allora mi dilungavo sui tetti, forse potevano essere più bassi, o piatti o senza tegole, e le palme o gli oleandri, forse più radi, sparsi meglio, o il turchese del mare, meno circoscritto, più aperto, magari più profondo, magari con echi soffocati di qualche relitto. Anche una barca a vela in lontananza, credevo potesse stare a Viareggio, a Terracina, ma non qui; sembrava troppo costipata in una prua e una poppa, sembrava stare lì e aver paura. Insomma potevo immaginare l'Assuncion dei cantieri Simeone, o una qualsiasi goletta con la chiglia scavata dalla mareggiate, addirittura un gozzo con sopra, che so, Salvatore detto Paco, che in apnea recuperava anfore e stelle marine. Niente ad eccezione di questo. Solo così potevo stare. Eppure, al mio arrivo, nonostante tutto, avevo assistito a un arrivederci e mi era sembrato un buon segno. Anzi era stato precisamente un addio travestito da arrivederci. Era stato prima di dialogare con l'acqua che è sempre così volubile. Era stato stato giusto mezz'ora prima. Era stato anche prima di conoscerti. Per caso. O meglio, era stato prima di conoscere il tuo nasino arricciarsi per chiedere lo sconto a un tizio sulla spiaggia per una veste bianca coi fiori azzurri. Io ti avevo salvata. Anche questo mi era sembrato un buon segno, ancora meglio del precedente, perché aveva avuto tutta l'aria di essere un inizio. C'era già tutto, età, bellezza, e reciproca sofferenza da guarire.

TERZO GIORNO
Al Poetto, andavo e venivo tra l'ombrellone e la battigia. Cercavo di convincermi inutilmente sull'acqua, e cioè che non fosse fredda. Quando sei arrivata non l'ho visto. Mi sono girato e ho i visto i tuoi denti bianchi farsi spazio in dei sorrisi. Stavi trattando l'acquisto di un abito leggero, a fiori. Dicevi che non era cotone, che non era come diceva lui. Crollavi il capo, sorridevi, e soprattutto arricciavi il naso. Un nasino piccolo, che a ogni sorriso si dilatava appena, pulsava come il petto di un uccello.
- Lascia stare, hai ragione non è cotone – ho detto di colpo venendoti in aiuto.
Il nero si è girato verso di me e poi verso di te. - Ok deci euro, va bene, deci euro – ha detto arrendendosi e spingendoti la mano che teneva il vestitino.
Hai pagato e mi hai guardato. Stavo già fermo nei tuoi occhi.
- Grazie - hai esclamato.
- Figurati. Comunque bello il vestito.
- Eh sì bello. Ti piace? Oddio, è una cosina così, io mi diverto a comprare d'impulso, poi puntualmente abbandono tutto nell'armadio – mi hai risposto sorridendo come a chiudere una confidenza, come se già ti appartenessi.

QUARTO GIORNO
Questa terra arida e ventosa coi fichi, le bouganville, oleandri, e fiori gialli dappertutto, sta a metà strada tra gli alberi formiani pieni d'aria e di sole e i noci, i castagni, gli ulivi, le ginestre di casa. Questa distanza incolmabile si aggiunge al desiderio di vedere un solo fico d'india maturo, uno solo, uno che si distingua dagli altri che assomigliano a olive verdi e spinose, uno da poter tagliare sul giornale, togliendo due dischi ai lati e srotolando la pelle arancia al centro. Potrei stare seduto su un muretto basso di pietra, e stare in buona compagnia. Magari vederti sbucare o addirittura vedere mia madre che arriva da dietro e mi abbraccia.

QUINTO GIORNO
Mi chiedi di chi sono le mai perfette di cui parlo. Non sono le tue. Delle tue non dico una parola. Neanche dello smalto, così indeciso (e critico verso il celeste) e così duraturo. Le tue mani sono vive come come ogni cosa. Come stamattina accanto le barche e i pescatori, sotto la Sella del Diavolo fino alla punta di Cala Caterina dall'altra parte. Anche qui è tutto vivo, compreso i pontili e i lidi mezzi vuoti, e sembra non mancare niente, neanche le tue parole che avanzano a fiotti come i pesci e arrivano all'improvviso, quasi sbucano dal nulla.

SESTO GIORNO
Oggi c'è troppo sole e troppa acqua. Ho bisogno di fresco vero, magari di Taburno, di faggi, abeti, aghi di sottobosco, palizzate di castagno, foglie secche che ammortizzano i passi, pietre a circolo per il fuoco, e cartacce, sante cartacce, compreso qualche piatto di plastica. Invece niente. C'è mare e vento. Soprattutto vento. Vento che si chiama maestrale e basta. Vento che dalla sella del diavolo attraversa il Poetto come una freccia. Questo vento stempera tutto. Il sole insistente e l'acqua troppo fredda. Corre e mi fa pensare che posso ritornare dove sono partito. Sotto le costole della dormiente del sannio. L'unico posto dove le mie ossa già corteggiano la terra.

SETTIMO GIORNO
Da Cagliari centro guardo il castello. Piega verso il basso, forse verso il mare, ma non ci metto la mano sul fuoco. Anzi, può darsi che resti lì sospeso, a guardare il panorama. Niente a che fare con Posillipo o con via Luca Giordano, o con Sant'Antonio sopra Formia che coi pini radi si strofina sul mare come un innamorato. Il Gargano è lo stesso, la foresta cade nel mare, lo buca, lo possiede. Cagliari centro resta lì, sospesa e provinciale. Tutto è fermo. Tranne i gabbiani, i fenicotteri e i fichi d'india appena fuori il Poetto. Sono segni precisi. Che non puoi fermarti al castello, al centro, ai palazzi. Anzi non devi. E' troppo poco. Bisogna pugnalare questa terra ventosa. Fino ad arrivare a Padria, dove si bardano i cavalli e si fa il latte negli ovili. Dove i pastori fanno gli spuntini mentre la notte copre le pietre dei nuraghi.

ARRIVO
Cagliari, mi fai voltare indietro come un amante ferito, come un animale che ha perso il padrone. Non ti amo ma è un buon inizio. Sento che da te ricomincerà un viaggio a ritroso verso la voce di mia madre. La prossima volta ritornerò calandomi dall'alto, passando da Pozzomaggiore, Padria, Bosa, diritto verso il Poetto, tra il mare e la terra brulla.


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